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La sabbia di Leman

Non siamo fatti solo della materia dei sogni, ma anche di quella dei ricordi, dei racconti e dei viaggi. Dentro questo perimetro si materializza La sabbia di Leman. Quando l’amore si fa silenzio. Sogni, racconti, ricordi e viaggi stesi al soffio del vento e al cambiare dei cieli. Quando, tra Losanna e il deserto giordano, si compie la perdita e il ritrovamento del protagonista, e si dipana la ricerca del filo su cui stendere i panni della sua vita scompaginata. C’è un amore che scompare, silenzioso come la nebbia sul lago di Leman e un’avventura umana che si accende, come il sole che albeggia sul Wadi Rum. C’è un ingegnere nucleare che perde la strada e una guida giordana che la ritrova. C’è il lago di Leman con le sue funeree leggende e ci sono i sentieri invisibili del deserto che portano lontano mentre ti avvicinano. C’è un cuore abbandonato che si ferma in Svizzera e un timido batticuore che si accende in Giordania.
Così il protagonista sbanda tra le latitudini cercando di capire se quello che si è perso vale la pena di essere ritrovato. E se l’amore può mettere radici anche lì dove non dovrebbe, perché i climi sono avversi o le terre inadatte.
Al capo e alla coda, due storie di devozione che più diverse non si può, in un intrico di sante, vergini, serpi e cani. In mezzo, sul filo teso tra Prologo ed Epilogo, sogni, ricordi e racconti dove si intuiscono le tragedie del secolo passato e di quello presente, quelle tragedie che né un lago né un deserto possono davvero contenere.
Ma il cuore, si sa, ha ragioni che la ragione non conosce, e alla fine, in tutto questo girovagare e in tutto questo smarrirsi, ci sarà un mappa per tornare a casa. Sempre che si voglia tornare.

 

Dal sito Mangialibri – Recensione di Sara Cabitta

Dopo aver vissuto a Losanna il momento più intenso della propria storia d’amore, Carlo decide di partire per affrontare i propri demoni interiori e il senso di distacco che lo attanaglia. Ora che il razionale Sebastien, fisico nucleare al CERN, lo ha lasciato da un giorno all’altro per tornare con la moglie che aveva abbandonato per lui, sembra che la vita abbia perso la sua lucentezza. Ogni cosa nel luogo in cui vive gli ricorda il suo amante traditore: gli amici che hanno in comune e i luoghi che frequentavano. Carlo, pittore di cieli, sensibile e addolorato, parte per la Giordania in cerca di sé stesso. Durante la lunga, gelida notte di Capodanno, in compagnia della guida Amin, tra confidenze, ricordi e riflessioni, riesce a capire meglio la situazione emotiva in cui si trova. Sotto lo sguardo intenso del giovane arabo affronta il proprio dolore e le insicurezze che fino a quel momento gli hanno tolto il respiro. Parlano d’amore, di vita, di lavoro, confrontando le loro visioni sul mondo e cercando di comprendere le rispettive culture. Così di fronte al falò, avvolti in una coperta di pelo di cammello, affidano la loro anima a una danza sufi e al cielo immenso del Wadi Rum. “Ogni confine è fatto per essere superato, perfino quelli che chiamiamo naturali. Non averne la tentazione è davvero contro natura, proprio come un dolore che non scema mai”.

Napoletano di nascita ma trapiantato a Roma, Carmine Sorrentino vanta numerose esperienze artistiche in campo teatrale, inclusi progetti con finalità ricreative per anziani e bambini. Nei primi anni ’90 trascorre un periodo a New York dove studia regia ed è solo col rientro in Italia e a partire dal 2008 che coltiva con abnegazione la sua carriera come scrittore. Lo stile elegante e poetico è una sua caratteristica. Le parole scelte con cura per trasmettere emozioni rendono la storia del pittore Carlo e del suo viaggio di rinascita un testo intenso, quasi filosofico, sulla vita e il giusto approccio per affrontarla senza esserne travolti e sconfitti. Nello spazio di una notte si ha il tempo di gettare i semi per numerosi punti di riflessione e così tra i ricordi di Carlo e le chiacchiere con Amin, si inseriscono la bellezza del cielo, la magia delle costellazioni, la tragedia dell’Olocausto ebraico, il problema dell’esodo siriano e il misticismo della cultura sufista di cui Amin è seguace clandestino e che permette ai due uomini di lanciarsi in una danza appagante e liberatoria che li avvicina e mette ancor più in connessione le loro anime. Ma a ogni notte segue l’alba e anche questa non fa eccezione e Carlo può finalmente riprendere in mano la propria esistenza e ripartire con una nuova consapevolezza e qualche speranza in più.

 

Dal sito La libreria Immaginaria – Recensione di Federica Bruno

La sabbia di Léman è un libro stupefacente. Un piccolo gioiello di una purezza irresistibile. Bordeaux Edizioni pubblica l’ultima fatica di Carmine Sorrentino, scrittore e curatore di mostre d’arte.

La delicatezza con cui l’autore espone i dolori e le gioie del protagonista sembra quasi innaturale, a un lettore poco attento potrebbe sembrare priva di energia e passione. Ma questa energia e questa passione ribolle, impalpabile a chi non ne sente l’urto, in sottofondo, nascosta nelle pieghe delle parole, nel susseguirsi delle frasi, mai casuali, sempre dirette a uno scopo, sempre intessute parola per parola per generare emozioni. E l’intento dell’autore, trasmettere sensazioni senza dover ricorrere necessariamente a quello stupore, a quel grido che molti invece adoperano, viene pienamente raggiunto tramite uno stile delicato, soffuso, ma allo stesso tempo tremendamente potente e travolgente. Il protagonista del romanzo esprime la necessità di “spogliarmi di tutto, persino dei miei pensieri più belli, perché la nudità è più seducente dei miei pensieri più belli. Non aspiro a essere uno o due o duemiladue, ma semplicemente un nulla, uno zero, rondo e assoluto”.

La sabbia di Léman è un vero e proprio viaggio introspettivo, grazie al quale il protagonista riporta alla memoria tutte le sofferenze, i momenti in cui il suo animo a poco a poco andava in frantumi, e anche le esperienze di vita che hanno contribuito a creare l’uomo che narra queste emozioni. È proprio tra le sabbie del deserto che il protagonista si riscopre, riportando alla realtà tutti quei frammenti di vita, quegli spezzoni di ricordi che, sommatosi tra loro, hanno portato a quel viaggio interiore, a quel dolore, a quelle emozioni. “Non c’era più niente al mondo che potesse trasformarsi in una lunga asta capace di rendere stabile la passeggiata di noi acrobati della vita sul filo teso sopra l’abisso. Sarei, inesorabilmente, caduto anch’io, tirato giù, come la foglia secca da una forza invisibile”.

Insieme a lui un compagno di viaggio fortuito, che si rivelerà più una guida, un saggio in grado di aiutare e sostenere questo viaggio personale e benefico, più che un completo sconosciuto, ruolo che in realtà dovrebbe avere. Un compagno che viene così descritto: “lui, però, oltre che musulmano, è anche figlio di un disegnatore per antonomasia, il vento che, nel suo mondo di dune, è il maestro di forme singolari e straordinarie”. Amin esprime una saggezza sottile, derivante da una mentalità e da una cultura completamente differente rispetto a quella occidentale. Molti dei dialoghi e delle risposte di Amin appaiono lucenti come fari nel buio, carichi di energia e passione: “– hai mai avuto paura? – gli chiedo senza imbarazzo. Ci pensa un po’ su prima di darmi una risposta. – no, non è nella mia natura. Però temo ciò che può ingannarmi, ciò che improvvisamente può cambiare il corso del mio destino o semplicemente ciò che può imprigionare i miei sogni”.

C’è una leggenda legata al Lago di Léman, il luogo che ospita questa splendida storia. È grazie a Sebastien, un fantasma di felicità nel cuore del protagonista, che egli scopre questa leggenda: nel 563 il lago di Léman fu colpito da una catastrofica e gigantesca onda anomala, chiamata Tauredunum. Anomala soprattutto perché generata all’interno di un lago. Distrusse tutto ciò che c’era sul suo cammino, fino ad arrivare a Ginevra. Un mistero vero e proprio, dal quale Sebastien era rimasto incredibilmente affascinato.

Un libro ricco di poesia, di amore, di delicatezza. Di emozioni nascoste e taciute, con le quali, si sa, prima o poi bisogna fare i conti per poter liberare l’anima dai pesi che si porta dietro. E poter vivere meglio, riscoprire se stessi, magari riuscire anche a raddrizzare i lati negativi del carattere, migliorare e ritornare a sorridere. Un libro travolgente e passionale, che non manca di stupire il lettore e regalare una miriade di sensazioni differenti. A volte è necessario isolarsi, allontanarsi da tutto e tutti per ritrovare se stessi. Questo libro è l’esempio di come, invece, noi uomini abbiamo sempre e comunque bisogno di non sentirci soli, di essere qualcuno con qualcuno, qualcuno per qualcuno. Un libro che testimonia lo smarrimento di un uomo che ha bisogno di perdersi, per poter ritrovare se stesso: “insomma, in cuor mio, smarrirmi ha sempre rappresentato la recondita condizione di incontrare il sorprendente, l’inaspettato o più semplicemente la possibilità di rivedere il mondo ancora con innocenza”.

Nella mia esperienza di lettore, c’è un solo modo per capire se un libro ha valore o no, ed è quello che mentre lo sto leggendo lui legge me o una parte di me. Questa cosa non succede spesso, ovviamente. Questo perché la narrativa è sempre più tesa allo storytelling, alla costruzione di un mondo ideale in cui il lettore si sente parte di un racconto, di una fiction, che lo rassicura perché, in fondo, non lo riguarda.

La sabbia di Léman invece mi riguarda da vicino, come lettore e come uomo, perché è una storia e non c’è storia che non riguardi l’essere umano, le sue evoluzioni o involuzioni, le sue caducità e le sue criticità, le sue disperazioni e i suoi successi, le sue ricerche e le sue trasformazioni. Ecco, La sabbia di Léman è un libro che parla di una trasformazione, di una metamorfosi. Un testo leggibile a più livelli, polisemico e ricco di spunti per pensare alla nostra condizione transitoria. È il viaggio di Carlo, il protagonista, che cerca di superare due perdite: la morte di Amelie, l’amata Scottish Terrier, e la fine dell’amore con Sebastien.

 

Dal sito Bordeaux Edizioni – Recensione di Roberto Di Pietro

Sperduto, tradito dal passato e incerto del futuro che lo aspetta, Carlo decide di andare in Giordania, nel deserto di Wadi Rum, dove incontrerà Amin. E proprio il deserto è l’elemento chiave del romanzo. Prima di procedere, vorrei che noi tutti prestassimo attenzione alla copertina del libro e al titolo: La sabbia di Léman. La sabbia e il deserto, il lago di Léman, le nuvole della bellissima opera di Elvio Chiricozzi. A ognuno di essi corrisponde, simbolicamente, uno dei tre personaggi principali del libro, in ordine: Amin, Sebastien e Carlo. Sono tre elementi (terra, acqua, aria), che corrispondono anche alle tre fasi della nostra vita: la nascita, la vita e la morte. Manca il 4, direte, ovvero il fuoco. Invece il fuoco, inteso come energia, trasformazione e passaggio, è nel libro ed è il tema principale del libro stesso.

Carmine Sorrentino riesce a mettere in scena, da uomo di teatro qual è, una continua opposizione di forze, un continuo sfregamento di opposti che in natura, come nell’arte, sono responsabili di una tensione. Allora ecco che alla Svizzera, patria della finanza, del capitalismo, degli scienziati, dei laghi e della cioccolata, corrisponde la Giordania, terra di storia, di tradizioni, di sufismo, di sabbia e di leggende; all’acqua, la terra; alla paura e alla colpa, la speranza, alla Storia, con la “esse”, maiuscola la storia di un uomo, al passato, il futuro. Ognuna di queste entità si fa simbolo e, come insegna Ricoeur, il simbolo dà a pensare, ed è proprio questo che li tiene insieme. Su tutti il deserto. Non è un caso se ognuno dei tre personaggi è rappresentante di una delle tre grandi religioni monoteiste e non è un caso che l’origine delle stesse sia comune: il deserto. È dal deserto che inizia la storia del popolo eletto, per volontà di Yhwh, è nel deserto che Gesù affronterà le tentazioni e nel deserto Maometto avrà la sua rivelazione di Allah.

Il deserto, dunque, è simbolo e metafora insieme. Mentre noi occidentali lo percepiamo come un non-luogo, un posto in cui la natura nega la sua rigogliosa forza e dove è impossibile vivere, esso è in realtà un limbo, il posto in cui, proprio perché non c’è nulla, ci si può fermare a riflettere su se stessi. Il deserto è l’annullamento delle proprie volontà, della hybris dell’uomo, un luogo in cui purificarsi e ripartire. Il deserto è il luogo della rinascita, ed è anzitutto un luogo mentale, l’opus alchemico. Jung diceva che la vera sfida della psicologia sarebbe stata quella di diventare pensiero, non un semplice artificio per guardare dentro le persone. E questa è la sfida che accetta Carlo, guardarsi dentro per isolare il dolore e lasciarlo andare, a differenza di Sebastien che invece è ossessionato dall’Olocausto e dal dover seguire i precetti della propria religione o della società borghese. Sebastien è la metastasi di Carlo, il suo cancro, la cellula impazzita che si è ribellata al suo corpo. La cura, allora, può essere (di nuovo, alchemicamente) solo nel simile: Il mio nome, che mi accompagna da sempre come un estraneo, finalmente si è fatto da me riconoscere attraverso il suono della voce di Amin. ‘Carlo’ mi ha raggiunto come una brezza marina, come un gioco di note, ma anche come scontro di suoni diversi: la ‘c’ appena aspirata, intimidita davanti ad una ‘a’ prolungata e severa, la ‘r’ arrotata, forse arrabbiata, una sorta di anima torva illuminata però da una morbida ‘l’ che di colpo si tuffa nel fondo di una ‘o’ quasi perfetta” (pp. 30-31). .

Ciò che per paura, senso di colpa o codardia una persona può togliere, viene restituito dal sorriso e dagli occhi color del cielo di un’altra. In una sola notte, ma emblematica, rito di passaggio, quale è quella di Capodanno, Carlo accoglie la mano che gli tende il deserto e riesce a liberarsi dal dolore, dalle paure e dal passato: “Era solo, era unico, era l’uno. È così che nacque il due” (p. 121). Carmine Sorrentino è uomo di teatro e di arte, usa le parole come colori, le umanizza al limite del gesto. Attraverso una scrittura fortemente evocativa, mostra come il dolore sia una fase di passaggio. Proprio come le nuvole, appunto, che se si addensano lo fanno solo per mostrare, appena diradate, la magnificenza della luce. E del perdono.

 

Dal sito Art A Part of Culture – Recensione di Isabella Moroni

L’entrare in questo romanzo è abbagliante e sovverte non solo le certezze, ma anche quel bagaglio di assonanze e corrispondenze (a volte omaggi) che ogni libro porta con sé, tributo di rispetto e conoscenza di altri libri e di altri autori.

E se la Vergine in lutto, di paglia e porcellana (che dalle Asturie alla Sicilia era poi approdata nel covo di un antiquario romano) e il suo manifestarsi ad una giovane creatura di nome Amelie, schiava dello stupore e dell’immenso che si celavano in questa statuetta, mi avevano riportata (seppur con maggior contenutezza, e non solo espressiva) alle descrizioni del sacro di Jean Genet, ecco che scoprire che Amelie altro non era che una cagnolina, una Scottish Terrier, mi ributtava nel gioco.
Un gioco dalle numerose variabili, ma sempre invitante e del quale è possibile scorgere una presente autoironia che s’affaccia dalle piccole cose e riesce a farci fare nostri il dramma, il melodramma, il tradimento, la storia, l’incoerenza, che il romanzo La sabbia di Léman (Bordeaux Edizioni) di Carmine Sorrentino porge al lettore per attirarlo in racconti che sembrano non avere altro in comune che il protagonista, Carlo, pittore di nuvole e cieli.

Carlo, che troviamo nel deserto della Giordania, l’affascinante Wadi Rum, nella mattina di un 31 dicembre, assieme ad un gruppo di turisti inclini al consumo compulso di escursioni, ruderi, monumenti rupestri, cene, sonno e nuovi tragitti.
Carlo che è diverso da tutti gli altri, che si rapporta al deserto come ad un altro se stesso e che, dall’alto del costone di granito su cui s’è arrampicato, vede, ascolta e annusa il deserto, comprendendo che lì e soltanto lì potrà aver luogo il suo distacco dalla sua storia d’amore con Sebastien, finita senza una spiegazione e lo spogliarsi “perfino dei miei pensieri più belli, perché la nudità è più seducente dei miei pensieri più belli“.
Tutto si svolgerà in una notte, in un deserto, in un farsi invadere dalle parole e dai ricordi. Soltanto lì potrà, infatti, abbandonare rancore, paura, abitudini, pene e ritrovare la sua gentilezza.

Nel deserto, dunque, nella notte che porta ad un nuovo inizio, nel colloquio stretto di parole e vicinanza fisica che Carlo ha con Amin, la giovane guida che sa fare il verso di tutti gli uccelli, che ha storie infinite da raccontare, nostalgie e purezze da condividere e che sa mostrargli saperi e unità, il protagonista rievoca e riprende possesso dei perché della sua vita, delle sue molte città, del segreto del lago di Losanna, il Lemano che dà il titolo al libro, dove – vuole una leggenda – giaccia l’intera umanità: una sorta di epitaffio medievale in seguito ad una catastrofe naturale nel 563.

Quell’epitaffio che Sebastien, inquieto, controllato, sovrastato dalle sue tradizioni e dagli orrori nazisti che avevano segnato la sua famiglia, sentiva valere per l’Olocausto intero, rendendolo preda di dubbi, immaginari scomposti, incubi e delle cose, degli oggetti che non smettevano mai di narrargli proprio tutte quelle storie.

Nella notte gelida del deserto Carlo incrocia e scambia se stesso sia con la presenza inattaccabile di Amin che anche quando parla dei Djinn, degli spiriti, li vede come compagni, sia con l’irrisolutezza di Sebastien, che non riesce a viversi l’amore forte, la passione e se ne va quasi senza una parola

Ma nel gioco a cui Carmine Sorrentino invita il lettore, di storie fantastiche ce ne sono molte altre: le montagne russe, la carpa e la capra, la paura, Dio… e l’autore ha una scrittura morbida, chiara e incorruttibile che non permette di lasciarle andar via, di dimenticarle. Usa costruire ricordi ed emozioni con parole differenti, scelte, assemblate nell’animo appena un po’ confuso dell’io narrante, pronte ad essere tramutate in piccole pietre miliari, forse gemme, forse solo spunti per non smettere mai di essere dentro ogni cosa che si vive, qualunque sia il rischio, qualunque il dolore, perché, in fine, ci sarà sempre un epilogo in cui, per amore qualcuno tesserà per noi un abito con cui unire i destini.

Tutto si svolgerà in una notte, in un deserto, in un farsi invadere dalle parole e dai ricordi.

 

Dal sito Zest – Recensione di Emanuela Chiriacò

 

La perdita. Cosa genera? Cosa implica perdere l’amore della persona amata? Di un affetto caro? Siamo davanti alla mancanza che si associa al detrimento. Alla mutilazione emotiva che cambia profondamente l’interiorità di chi lo prova e del suo profondo.

Carmine Sorrentino non si sottrae all’investigazione del dolore causato dalla perdita nel suo nuovo romanzo La sabbia di Léman, Bordeaux edizioni. Si presta e si sottopone alla ricerca, con il suo immaginario ricco. Mescola viaggio narrativo e lingua poetica, ottenendo un mélange di potente efficacia.
Siamo a Losanna, sul lago di Léman. Una storia il cui racconto si apre sulla bellezza plastica di una statuina. Un piccolo simulacro dagli abiti in stoffa e con il volto screpolato. Una statuina che somiglia ad una “giovane vergine più che a una donna ingravidata dal dolore del mondo”. Una casa, un uomo e una bambina. Amelie, questo il suo nome, ne resta affascinata. È un acquisto fatto da un antiquario. Un pezzo economico eppure carico di interesse. Amelie la osserva nella sua collocazione, le scorge il manto del cielo negli occhi e quando l’uomo, Carlo la sposta in altro luogo, lei non si rassegna a quel vuoto. La cerca anche di notte. E di notte troverà la bambina con la statuina distrutta ai suoi piedi.
L’accadimento è il preludio di una separazione, l’ennesima nella vita dell’uomo che sceglie di affrontare un viaggio che prenderà il sapore dell’avventura, nel deserto maghrebino. Quella distesa di sabbia infinita è lo spunto per riflettere in solitudine e in compagnia di un’amicizia fortuita che non ha coinvolgimenti e condizionamenti pregressi. Carlo è colpito dall’incontro con Amin. Il suo autista nel deserto, che a bordo della sua jeep, con il suo inglese perfetto, diventerà un mentore. Una spalla su cui poggiarsi per quell’attraversamento sulla sabbia che scotta di ricordi vivi. L’incontro tuttavia sarà anche stimolo verso un percorso di liberazione.

Il cuore della storia si svolge la sera della vigilia di Capodanno a Wadi Rum, in una tenda di beduini. Sembra di essere all’improvviso catapultati in un dipinto orientalista, olio su tela, di fine ottocento. Un dipinto che parla di storia, di vissuto, di un’antichità contemporanea. Pennellate dell’illusione del vero, di creazioni artificiali riportate in vita dal dialogo di due culture, due mondi, due identità e due orientamenti molto diversi. E il convivio si fa condivisione di cibo, tè e spirito. Qualcosa spezza l’equilibrio fragile e illusorio dell’attimo della dimenticanza. Carlo ricade nella spirale del ricordo di Sebastien e Amelie. Persi entrambi ma in modo differente.

Chi è Sebastien? È un uomo curato e calmo. È un fisico al CERN di Ginevra. La loro, una relazione che si interrompe bruscamente. Eppure il potere di saper coinvolgere è il dono di Amin che lo distoglie da quel male fisico con il potere liberatorio della danza del dabka. Si instaura tra i due un gioco costante di avvicinamenti e allontanamenti. Gli uni, di affinità sensibile e gli altri fatti di limiti culturali. Amin parla della moglie, di donne, figli e poligamia. Discorso complesso per un occidentale. Labile lo spiraglio della comunicazione. Il dire I understood di Carlo equivale ad una carezza, ad una nuova possibilità di saper comunicare.

Il giro di valzer della memoria riporta Carlo a Losanna e al lago di Léman. Lemano. La leggenda racconta che il lago sarebbe in grado di contenere i cadaveri dell’umanità intera. Un sepolcro liquido. Sebastien ha provato a calcolare la veridicità della leggenda per giungere alla conclusione che non c’è prova scientifica che confuti tale assunto. Siamo così davanti a tre nomi, due di persona: Amin e Sebastien; uno geografico: Léman. Tutti e tre terminano per n. N come concetto matematico, n tupla. Un’elevazione, un apice. Nel racconto Amin e Carlo sono spazio. Il primo spazio vuoto, equivalente alla malia, e l’altro in quanto pittore, incarnazione del concetto di ricerca spaziale. Sebastien è il tempo. Amin e Sebastien sono gli assi cartesiani che si intersecano sul punto di origine che è Carlo. È lui l’unità di misura che favorisce il riconoscimento funzionale e emotivo dei personaggi. Lui ha la facoltà di collocare entrambi nella stessa dimensione.

Sebastien è altro adesso. È ritorno alla vita prima del loro incontro. È ritorno alla moglie. A quegli esercizi di stile prefigurati dal libro di Raymond Queneau. Il libro che lo ha avvicinato a Eva, lo ha allontanato da Eva e lo ha riportato a Eva. La prima donna. L’unica. Sua moglie. Un libro che lega Sebastien alla nonna. Alla sua formazione. All’incontro con le emozioni sociali, con le regole ferree della sua cultura. Nonna Miriam è una donna ebrea di origini russe, ha sposato Pepé, un ebreo italiano con cui si trasferisce a Ferrara. Per sfuggire dall’orrore. Lei lo ha introdotto a quegli esercizi di stile. Ad un’educazione rigida e rigorosa. Gli esercizi di stile, la preghiera laica di nonna Miriam.
La mente vola al giorno in cui Sebastien ha acquistato una scatola in apparente avorio e una piccola statuina. Sì la statuina della vergine con cui si apre il racconto. Sebastien è in compagnia della sua amica Cécile.
Carlo è nel deserto, sotto una coperta di cielo lontano. Lontano dall’inquinamento luminoso. Lontano dai condizionamenti. È tabula rasa. In compagnia delle stelle e dell’osservazione delle stesse, ripensa al lago. Al lago che lega Sebastien a sua nonna Miriam. A pensare che senza Sebastien ha perso la speranza. “Quando ci si denuda l’anima davanti a qualcuno, il cuore poi si spezza”. E Carlo è lì con il cuore spezzato, steso sulla sabbia a guardare quel cielo e svolgere l’esercizio consumante delle parole dolorose, ad esperirle e svuotarle del loro significato per uscire dalla capinera. Dal buio pesto e inchiostrato della tristezza. Della depressione. È timoroso di essere fagocitato dal silenzio. Ne ha paura. Amin si fa vice della sua coscienza, lo riporta all’abbraccio e al calore balsamico delle parole “Quando incontrerai davvero l’amore non avrai più paura”. L’amore si farà guida esperta dell’attraversamento dei suoi silenzi interiori .

La mente torna alla separazione. Carlo è solo. Amelie non c’è più. Lascia Losanna. Prova a passare tempo a Roma ma sente che il processo del parto è in corso. La città lo espelle. E lui va a ri-nascere nel deserto. È la notte della vigilia del nuovo anno. Il giorno di Capodanno è lontano poche ore. Carlo trasforma il dolore. Si sente coinvolto in un nuovo amore. Carlo ama la sua guida Amin. Amin lo ricambia di affetto da sincera amicizia. Vorrebbe farlo restare, sa che nel luogo in cui è rinato, può crescere con il suo nuovo cuore.

Siamo all’epilogo. Qui il dolore della spiegazione si fa struggente di bellezza e crudeltà. La scrittura di una lettera si mostra strumento descrittivo della separazione. Della lacerazione tra il non esserci di una promessa che si rimanda al domani che non verrà (Sebastien) e il dolore nutrito dalla speranza di chi è rimasto intrappolato nell’illusione dell’attesa (Carlo).

Un amore consumato in un infinito domestico, necessario e lacustre. Un amore che porta chi lo vive con il dolore del rifiuto, a prescindere dalla sua motivazione, a sentirsi sovrastato dalla paura del silenzio. Siamo davanti ad due bambini, due puri, uno di fronte all’altro. Entrambi allertati, in attesa del via, ad acchiappare il fazzoletto giocato. Il cencio in palio, sotto la pioggia del pianto che uniti non li vuole.

Carmine Sorrentino parla di amore. Di amore tra due esseri umani. Un amore che prescinde l’orientamento di chi lo vive. È Amore. Quella cosa semplice che accade senza una ragione e che finisce allo stesso modo. Che è finito anche se non finisce. Perché non tutti hanno il coraggio libero di andare incontro alla propria felicità. O a qualcosa che le somigli. Spesso si cresce con l’idea, dorata come la gabbia in cui ci sente a proprio agio, nella personale zona di confort generata da come bisognerebbe comportarsi e come bisognerebbe essere. Trascurando l’ascolto della propria interiorità. Rimuovendola. Negandola, in nome della meta genealogia che si è ereditata. Il come dovremmo essere che ci cuciono addosso e del quale non sappiamo liberarci. Finendo per non tradire le altrui aspettative, per evitare la violenza del rifiuto familiare. Rinunciando spesso alla nostra parte migliore. Confinandoci nella terra del rimpianto e del rimorso. Di ciò che avrebbe potuto essere. Amando la rosa che non cogliemmo. E Carmine Sorrentino racconta questo dolore con sobrietà ed eleganza. Con un linguaggio che ha la bellezza dell’antico e la lucidità della contemporaneità. Solitudine aumentata come la realtà che, spesso, ci condanniamo a vivere.